Nell’aprile 1960 Salinger ebbe una oscura visione. Si vide seduto a una sala da ballo mentre la gente davanti a lui danzava il valzer al suono di una orchestra. La musica si dissolveva lentamente mentre i ballerini si allontanavano sempre più. E’ un’immagine soltaria di Salinger che si ritira dal mondo che lo circonda, non tanto per scelta quanto per destino.
Molto interessante la biografia di J.D. Salinger di Kenneth Slawenski “Salinger. La vera storia di un genio”. Ora dal volume emergono tre aspetti di fondamentalissima importanza ignorando i quali non è possibile apprezzare fino in fondo l’immenso talento letterario di Salinger: la guerra, New York e soprattutto le filosofie orientali.
Salinger prima ancora di essere uno scrittore dotato era un uomo con le palle, uno di quelli che ancora sapeva produrre l’America e l’Occidente prima dei rammollimenti piagnucolosi della post modernità dagli anni Sessanta in poi. Fosse entrato nel pieno della maturità artistica qualche anno dopo con tutta probabilità Salinger non sarebbe diventato un autore cult per il semplice motivo che le sue esperienze come uomo maturate in quegli anni sono state il sostrato necessario alla sua evoluzione come scrittore.
Non c’è dubbio che la guerra abbia profondamente inciso sulla personalità e l’opera di Salinger: nato in una famiglia alto borghese confortevolmente alloggiata in una delle vie più esclusive d’America ossia Park Avenue a New York avrebbe potuto tranquillamente diventare un giovane viziato, palliduccio, debole e un po’ nevrotico. E invece, lui amante delle lettere e della cultura umanistica, parte volontario per la seconda guerra mondiale prima come istruttore di meccanica aeronautica e poi come ufficiale addetto al controspionaggio ossia due attività che nulla avevano a che vedere con le sue più naturali propensioni, ma che un uomo di intelligenza superiore come lui ha immediatamente appreso e messo in pratica con successo. Salinger ha partecipato allo sbarco in Normandia, rischiato più volte la vita durante l’avanzata verso la Francia occupata e durante la Battaglia delle Ardenne, ha visto degli orrori e pur uscendo scosso dall’esperienza bellica è riuscito a non perdere la sua delicata e calda umanità.
La New York degli anni Cinquanta con la sua effervescenza culturale ricca di stimoli in un periodo di forte sviluppo economico e ideale è stata fondamentale per Salinger. Fosse nato in una realtà più provinciale non avrebbe mai potuto acquisire quell’ ‘”open mind” che gli ha permesso di entrare in contatto con le religioni orientali – e specialmente il buddismo zen – e con i suoi guru: le letture de Il Vangelo di Sri Ramakrishna e L’autobiografia di uno yogi di Paramhansa Yogananda sono state per lunghi anni le sue letture preferite.
Le filosofie orientali sono infatti alla base della sua poetica e dei suoi racconti: l’idea di un’anima universale, dell’esercizio del talento nell’attività per cui si è più dotati come unica e autentica esperienza religiosa realmente valida, la preghiera come dedizione a un lavoro ben fatto, l’idea che l’esecuzione di un lavoro svolto con amore e riuscito è premio a se stesso a prescindere da qualsiasi gratifica monetaria, e l’incontro con l’esperienza del Satori cioè l’illuminazione tipica del buddismo zen sono tutti elementi presenti tanto ne Il Giovane Holden, che in Nove Racconti, che in Franny e Zooey. Personaggi come Holden o i membri della famiglia Glass sarebbero incomprensibili, noiosi e orribilmente banali se non sono inquadrati all’interno di uno sviluppo che conduce dall’apparente conformismo all’illuminazione spirituale del Satori buddista. Ogni storia di Salinger converge verso una forma superiore di sapienza che non scaturisce mai da una grande teofania, da un miracolo appariscente o da una clamorosa rivelazione, ma da un piccolo episodio quotidiano del tutto ovvio per i più, ma tale da trasformare la percezione di se stessi e degli altri.
In questa prospettiva deve essere valutato anche l’isolamento quarantennale di Salinger dal resto del mondo: lui, lo scrittore cosmopolita newyorkese, decide infatti di isolarsi nel paese montuoso di Cornish, in uno di quei recessi boscosi dell’America rurale e contadina dove poter coltivare la preghiera e la meditazione in perfetta solitudine. Preghiera e meditazione che beninteso non hanno nulla di confessionale o devoto come comunemente si intendono, ma che avvengomo tramite l’esercizio della scrittura. La scrittura come esplorazione di se stessi, mappatura delle proprie virtù e dei propri vizi, contemplazione del proprio panorama interiore è stata per Salinger non un lavoro, ma una missione. Senza nulla togliere, lo diciamo subito, ad autori come Kurt Vonnegut i quali con grande sincerità hanno ammesso di essere diventati scrittori per sete di fama e di denaro.
Il libro di Kenneth Slawensky mette in luce due aspetti particolari che riguardano il contesto ambientale e i rapporti di Salinger con gli scrittori della beat generation. Slawensky illustra in modo magistrale il clima vitale ed energetico della vita culturale newyorkese specialmente riguardo le cosiddette “patinate” ossia le riviste alla moda che pubblicavano e spesso lanciavano i giovani autori emergenti come Salinger: riviste come The New Yorker, Cosmopolitan, Harper’s e altre sono l’immagine stessa di una joie de vivre magari un po’ superficiale e troppo ottimistica, ma forse per questo salutare ed efficacemente terapica contro le nevrosi esistenziali. E poi Slawensky scolpisce l’immagine di Salinger per contrasto con quella degli autori della beat generation quali Allen Ginsberg e William Burroughs: mentre questi ultimi descrivevano mondi immaginari che esploravano grazie all’uso di esperienze estreme e di droghe in cui la psiche diventa una porta verso l’incubo, l’accesso alla parte più tenebrosa di se stessi, Salinger, al contrario, amava la luce, la trasparenza, la salubrità che deriva dalla sobrietà quando non addirittura da un austerità che sfiora la disciplina di un collegio prussiano di fine Ottocento.
Salinger, uomo tenace, estremamente intelligente, capace di grandi tenerezze, ma anche spietato, assolutamente intransigente nelle sue valutazioni sul mondo editoriale, su molte delle persone con cui entrava in contatto e forse sul genere umano che, con le dovute eccezioni, non amava ritenendo la maggior parte dei suoi rappresentanti meschini e ipocriti. Da qui una certa aria di superiorità vanagloriosa, una tendenza alla spocchia che la sua gentilezza d’uomo d’altri tempi non sempre riusciva a mascherare, un chiaro egotismo ed amore di se stesso che lo spingeva a evitare gli incontri pubblici per non deludere coloro che si aspettavano fosse quell’ uomo umile e altamente spirituale che tutti pensavano fosse, ma che lui sospettava di non essere. E infatti la critica più attenta gli imputa il fatto d’aver creato dei personaggi a volte non credibili, poco verosimili e quindi senza appeal empatico soprattutto quando tratteggia ritratti di piccoli geni di sette – dieci anni che già parlano come dei santoni illuminati, hanno capito tutto della vita e danno lezioni su come interpretare la realtà: troppo perfetti, troppo irreprensibili, troppo sicuri di se.
Perche infine questo è il dubbio finale del biografo di Salinger: ma le altezze spirituali che molti dei suoi personaggi mostravano di avere appartenevano a Salinger stesso che quindi proiettava la sua personalità su di essi, oppure rappresentavano un’ideale che lo scrittore ha tentato tutta la vita di raggiunegere senza mai riuscirvi?
Categorie:bio - autobiografie, J.D. Salinger
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