“Americana” di Don de Lillo è un anti romanzo che riguarda una lunga e dolce vecchiaia: quella dell’America poco prima del collasso.
“Americana” è il primo romanzo di Don De Lillo padre, con Thomas Pynchon e David Foster Wallace, della letteratura americana post – moderna caratterizzata nei suoi esiti più felici da una sorta di lucido “melting pot” di generi eterogenei: flash descrittivi, abbozzi di panorami umani e terrestri, scorci urbani, fotogrammi di piccole e noiose cittadine di provincia, annotazioni psicologiche, sequenze trash spesso accompagnati da interminabili note e digressioni a corredo del testo. Il romanzo inoltre è uno dei primi tentativi di scrittura “on the road” che avrà quale illustre predecessore “Sulla strada” di Jack Kerouac e, più recentemente, il libro cult amatoriale “Strade blu” del meticcio pellerossa William Least Heat Moon.
A caratteri troppo radicalmente sperimentali tipici del romanzo post moderno americano si sottrae in parte “Americana” la cui ibridazione narrativa appare più asciutta e misurata, spesso assorbita da un panorama umano fatto di volti di personalità randagie che vogliono percorrere gli Stati Uniti coast to coast, vecchi che coltivano innocenti hobbies, rappresentanti di pneumatici che percorrono la vita su automobili di grossa cilindrata, scrittori falliti, attori di terza fascia, giovani donne immature dissociate da qualsiasi cosa.
Dave Bell, il belloccio trentenne protagonista di “Americana”, è un uomo di successo che nei dialoghi fra amici passa per uno di quelli che “ce l’ha fatta”, che “ha sfondato”. Bell è top manager in una grande azienda di produzioni televisive che irradiano le famiglie americane di programmi più o meno trash intrisi degli scarti della cultura di massa: fiction di durata transgenerazionale, documentari su aspetti culturali marginali, monologhi deliranti di conduttori televisivi, esasperanti spot pubblicitari. In questo clima da basso impero New York appare come una cittadella medievale cinta da mura e attraversata da miasmi esistenziali di vite ammorbate dal cinismo amaro di chi crede di essersi giocato tutte le carte possibili per uscire dall’anonimato. Assistiamo nella prima parte del romanzo a titanici sforzi protesi alla conquista di posizioni di prestigio dove più che il talento professionale conta la capacità di sgomitare.
New York è la nuova Babilonia, la città del sesso, della depravazione e dei tradimenti: nell’azienda di Bell ogni manager ha una relazione con la segretaria, mentre un fantomatico personaggio aziendale soprannominato Trotskij lascia post it sulle scrivanie con frasi tratte dalla mistica cristiana dal significato oscuro e indecifrabile.
Nella cornice di quest’atmosfera “fin de siècle” grottesca e deforme Bell riceve l’incarico di realizzare un documentario sugli indiani Navajo che vivono abbarbicati nelle regioni più interne d’America. A questo fine ingaggia un equipe di improbabili collaboratori: l’enigmatica scultrice Sullivan, l’aspirante scrittore Brand e il vecchio blaterante Pike con i quali percorre a bordo di un vecchio camper l’America rurale alla ricerca degli ultimi pellerossa. Ma quello che accade durante il viaggio “on the road” sulle strade americane è la storia di un incontro: l’incontro di Bell con l’America profonda, fatta di gente semplice, ma prossima a guastarsi a causa delle robuste iniezioni di dosi sempre più massicce di prodotti trash che alimentano i desideri delle classi umili.
Bell, affascinato dall’incontro, decide allora di procrastinare la sua indagine documentaria sugli ultimi Navajo per girare con attrezzature non professionali un filmato artigianale sulla pletora indefinita di personaggi che incontra durante la lunga sosta in una sonnolenta e insignificante cittadina. Qui avrà modo di imbattersi in ingrigiti addetti di reception, artisti falliti, giovani donne consumate dall’isteria, camminatori solitari, rozzi ed elementari venditori malati di sesso, pessimisti cronici tutti tenacemente attaccati ad abitudini e gesti prodotti in serie che li rendono inconsapevoli e quindi innocenti personaggi estranei alla Storia che si srotola invece nelle babeliche metropoli americane in prossimità delle coste atlantiche o del Pacifico.
A ciascuno di questi personaggi, veri e propri outsider accomunati da ambizioni frustrate, Bell chiede di posare davanti alla cinepresa e di pronunciare un monologo imparato quasi a memoria rappresentativo della loro condizione esistenziale: leggiamo così lunghe pagine intrise di tirate pazzesche di un’ America sommersa e arrabbiata densa di deliranti monologhi sulla fine del mondo, estenuanti confessioni sul proprio vissuto sentimentale, discorsi incoerenti di predicatori solitari, parossistiche diagnosi su come lanciare sul mercato un nuovo tipo di collutorio gengivale esattamente uguale a tutti gli altri.
Si rivela allora l’intima natura del romanzo: un collage di monologhi, sproloqui verbali e logorree fuori controllo irosamente mutuato dai mass media che hanno plasmato la mente dell’America rurale la cui voce è la stessa degli speaker delle stazioni radio secondarie che nei loro monologhi notturni demenziali lasciano aperte le cateratte di lunghi flussi di coscienza alla James Joyce.
Dave Bell cattura immagini, voci, suoni e colori di quest’America dalle connotazioni tipiche della pop art e decide di farne un lungometraggio in cui immortalare i frammenti dell’America conservatrice e residuale che sbava ai margini del benessere e della nevrosi, quella che nelle recenti elezioni USA ha votato per Donald Trump. Rimasto solo Bell continuerà a fissare sequenze della provincia americana col suo popolo muto di parcheggi suburbani, enigmatiche facciate di case eternamente silenziose, tavole calde ronzanti di mosche, parchi giochi per bambini vuoti e cigolanti.
Ne riuscirà un film la cui visione richiede una settimana ininterrotta di proiezioni, solo parzialmente sonorizzato e costellato di gruppi di anziani che salutano da lontano, personaggi monologanti, digressioni sulla morte, iraconde confessioni, emersioni di materiale psichico. E infine l’ultima immagine a concludere il lungometraggio: quella di Bell che filma se stesso riflesso da uno specchio mentre regge la cinepresa a spalla.
Dal materiale caotico che si accavalla nel romanzo si intuisce infine perché il libro pur essendo un resoconto mai affascinante e ancor meno coinvolgente tuttavia risulta inquietante: “Americana” è un anti romanzo che riguarda la storia di un anti film su una lunga e dolce vecchiaia: quella dell’America e dell’ Occidente poco prima del collasso.
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