…il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono.
(Mt 11,11-15)
John Fante: scorbutico, inattuale, inquieto, fuori moda. John Fante: uno scrittore cosi letterariamente violento che oggi, nel clima soffocante del politicamente corretto e della castrazione del pensiero, forse non sarebbe pubblicato da nessuno. Chi accetterebbe l’opera di uno come lui fieramente americano e patriota, conservatore, tradizionalista, cattolico, carnivoro e fumatore e che per giunta lo dice, anzi lo scrive chiaramente, con ostentato orgoglio? Forse nessuno. Ma lui per fortuna ha scritto in un’epoca dove ciò che contava era l’arte per l’arte, la letteratura per la letteratura, il bello che è tale non perchè ispira alati, infiorettati e svenevoli buoni sentimenti, ma perchè provoca emozioni viscerali, passioni intense. La quadrilogia di Arturo Bandini, ossia l’alter ego letterario di John Fante comprende quattro romanzi che qui elenchiamo in sequenza cronologica per ricostruire la vicenda autibiografica dell’autore: La strada per Los Angeles, Aspetta la primavera Bandini, Chiedi alla polvere e Memorie di Bunker Hill.
Di questi l’assoluto capolavoro è il terzo della quadrilogia, appunto Chiedi alla polvere pubblicato nel 1938. Il romanzo è la storia ampiamente autbiografica di John Fante, figlio di immigrati italiani a Denver, sotto le spoglie del personaggio letterario di Arturo Bandini. La vicenda narrata si svolge interamente a Los Angeles, città nella quale Fante si era trasferito lasciando la famiglia nella speranza di riuscire a sfondare come scrittore di successo. Dunque la storia di Arturo Bandini è la storia di John Fante costituita da un doloroso e lungo apprendistato per diventare uno scrittore famoso in un’epoca in cui per riuscire bastava il talento e una volontà di ferro. Un apprendistato che Fante appena ventenne o poco più dovette affrontare in spettrale povertà e agghiacciante solitudine nella capitale californiana dove alloggiava in una sordida stanza d’albergo popolato da un esercito di derelitti come lui. Infatti è una vera e propria galleria di falliti, alcolizzati, poveracci agli stracci, personaggi resi spietati dalla necessità e allo sbando che passano le giornate in accappatoio e ciabatte, dei nuovi cavernicoli che vivono in luride stanze d’albergo col lavello stracolmo di stoviglie incrostate di cibo, che leggono, fumano e bevono sdraiati in letti sfatti dalle lenzuola lerce; è una folla pittoresca e dolente di uomini e donne minati nel corpo e nella mente quella che attraversa il romanzo. In questo clima umano di profondo degrado la stessa Bunker Hill, il quartiere di Los Angeles dove è ambientata la storia, ha qualcosa di malsano, di malaticcio come il discorso incoerente di una mente provata che stia per varcare la soglia fatale che separa sanità e follia, razionalità e caos, lucidità e perdita di identità.
Allora cominciamo: Chiedi alla polvere è innanzitutto un romanzo attualissimo perchè parla di sradicamento. Sradicamemto, beninteso, non solo e non tanto geografico, ma anche e soprattutto esistenziale. La Los Angeles di Fante è una specie di immenso ciclope malato, un enorme sanatorio dove approdano come balene spiaggiate due categorie di persone: la prima categoria è rappresentata dagli sconfitti della vita che vivono di espedienti e di ricordi, quelli che, passatemi la metafora calcistica, non ambiscono più a vincere lo scudetto per mancanza di talento o di fortuna, ma nemmeno sono a rischio retrocessione essendo riusciti, sia pure da dilettanti della vita, a guadagnarsi una faticosissima salvezza evitando la retrocessione in serie B. La seconda categoria riguarda coloro i quali, giovani e forti, ancorchè poveri e incazzati, vogliono – violentemente vogliono – uscire dalla pastoie anonime delle serie minori per essere promossi in serie A costi quel che costi in termini di cinismo, durezza e stronzaggine. Le quali, come la miglior psicologia insegna, sono le maschere dietro cui si para una drammatica e latente debolezza di spirito e di corpo.
Dunque ecco che questi due mondi si incontrano e si scontrano: quello egoico, ambizioso e narcisistico incarnato da Arturo Bandini e quello dimesso, semplice e privo di grandi ambizioni di Camilla Lopez, immigrata messicana di professione cameriera al Columbia Buffet di Los Angeles di cui lo scrittore emergente, ma non ancora emerso, si innamora. Non si tratta di vero e proprio amore con tutte le sfumature romantiche che di solito si attribuiscono a questo sentimento: quella fra Arturo e Camilla più che amore è una passione violenta, quasi parossisitica fatta di litgi, alzate di voce, atteggiamenti di sfida che finiscono per lambire l’odio reciproco. Il quadro però, già abbastanza complesso, si complica perchè se Arturo ama violentemente Camilla di un “desiderio senza passione” che lo rende sessualmente impotente, di contro Camilla ama follemente un collerico e irascibile barman di nome Sammy che la tratta come una pezza da piedi o una servetta di quart’ordine. Si crea così un curioso trinagolo amoroso o mènage a trois che si fa progressivamente più ingestibile per Camilla nel momento in cui Sammy si ammala di tubercolosi e si ritira in ascetica solitudine in una baracca nel deserto del Mojave che circonda da ogni parte Los Angeles.
E poi c’è la polvere del titolo: tutto il romanzo è attraversato dal tema della morte ossia della polvere da cui veniamo e a cui ritorneremo come sottolinea lo stesso Arturo Bandini: una polvere che sospinta dal deserto volteggia nell’aria illuminata dal Sole, che sembra coprire di una coltre dorata persone, edifici, strade, piante e che rende torbido e limaccioso anche il pensiero attanagliato dalla calura soffocante della California. Un clima violento che attizza ancor più l’irascibile voglia di fare a sportellate contro tutto e tutti di Arturo Bandini che si barcamena così fra la sua voglia incoercibile di diventare il grande scrittore che poi diventerà e la passione malsana per Camilla che peraltro ama Sammy. Fino a poco oltre la metà il romanzo si mantiene su un tono che è lo specchio esatto del carattere irascibile di Bandini: una specie di romanzo picaresco disseminato di eventi grotteschi, di giocosi espedienti che riguardano l’arte di sopravvivere in cui eccelle l’episodio comicamente truculento del furto del vitello per fame. L’episodio, realmente accaduto, è così riassunto nel prologo in una edizione successiva del romanzo dallo stesso Fante:
Clarence Melville il reduce ubriacone della guerra ispano-americana, abitava dall’altra parte del corridoio. Aveva una camera assai essenziale. Anche lui era stanco di mamgare arance. Aveva una macchina. Una sera ci siamo saliti. Lui conosceva un posto dove potevamo trovare della carne. Andammo a san Fernando. Parcheggiammo. Strisciammo sotto il filo spinato fin dentro il pascolo. Poi in punta di piedi siamo entrati nella stalla. Il vitello era lì. Clarence l’ha colpito in testa con una mazza. Abbiamo trasportato quell’ammasso sanguinolento fin dentro la macchina e siamo tornati a Los Angeles. Lo abbiamo trascinato in camera sua passando dal retro. Dio che notte! Quel vitello non voleva morire, per quanto gliele suonassimo. Sangue sul pavimento, sul tappeto, sulle pareti, nella vasca da bagno. Stavo male e non potei mangiarne. C’era sangue nel corridoio ed è arrivata la polizia. Hanno trovato Clarence in bagno che macellava l’animale. Gli hanno dato sessanta giorni e per tutto il tempo che ha passato in galera e durante il processo non mi sono mosso dalla mia camera intento per lo più a pregare…
Il romanzo è una parabola che presenta un aspetto pedagogico tipicamente americano e tipicamente borghese: la realizzazione del sogno americano, la possibilità di costruire da zero, partendo da condizioni di profondo disagio economico, una vita di successo grazie a una ferrea volontò di potenza quasi superomistica. D’altra parte Bandini sembra avere molto del superuomo di Nietzsche, disposto com’è a elevarsi al di sopra del bene e del male almeno finchè la sua educazione cattolica lo richiama all’ordine. Uno degli effetti ironici del romanzo è costituito dal contrasto continuo fra azioni moralmente riprovevoli come l’adulterio, i furtarelli da quattro soldi o l’uso di marijuana cui Bandini eccede nei momenti di crisi e i repentini pentimenti con intense preghiere che impetrano la pietà divina, amare confessioni e il desiderio di non ricadere nei vecchi errori. Poi nel decorso narrativo del romanzo qualcosa si spezza: il tono da epopea popolare e comicamente naif che ha caratterizzato gran parte del racconto si incupisce nel descrivere la progressiva follia di Camilla che non corrisposta nel suo amore da Sammy gradualmente immalinconisce e infine impazzisce. Ricoverata in una clinica psichiatrica, ne uscirà pesantamente segnata nel fisico e nel morale.
Qui emerge finalmente la vera personalità di Bandini/Fante il quale abbandonato il cinismo un po’ bastardo che aveva strategicamente utilizzato per avvinghiare a se Camilla e per farsi largo tra la folla di anime dolenti da cui è circondato, decide di prendersi cura della donna dal punto di vista materiale e morale e di soddisfare il suo massimo desiderio: quello di possedere un batuffoloso cagnolino. Al naufragio della donna tuttavia si accompagna il trionfo professionale di Bandini il quale, dopo aver pubblicato il suo primo romanzo, incassa un cospicuo assegno che gli permette di uscire dal suo stato di povertà, accantona la sua fame lupesca di successo e di denaro e decide dedicarsi interamente alle necessità di Camilla. Ma la passione della ragazza per Sammy è inestinguibile: il finale è enigmatico, degno di uno dei saggi di Carlos Castaneda: Camilla Lopez si reca per l’ennesima nel deserto del Mojave da Sammy, ma cacciata da quest’ultimo si incammina verso delle creste collinose facendo spariire ogni tracca di se. Invano Arturo cercherà di ritrovarla. Ora, nonostante il finale possa apparire tragico, il romanzo dal punto di vista stilistico ha un pregio: riesce a parlare di circostanze drammatiche come il senso di caducità della vita, l’incombere della morte su uomini e cose, la pazzia di Camilla, l’impotente rabbia di Arturo in modo ironico, ilare e a tratti grottesco. Lo stile di John Fante è una via di mezzo fra il lirismo accentuato di alcuni beatnik come Jack Kerouac e l’iperrealismo chirurgico e analitico di un Foster Wallace, una mirabile sintesi fra un minimalismo alla Hemingway e la logorrea descrittiva di certa avant pop americana. Proprio per queste sue sfumature drammaticamente comiche o comicamente drammatiche Chiedi alla polvere è un romanzo che si potrebbe ascrivere al genere picaresco con un succedersi apparentemente disordinato di episodi: insomma di tratta di un testo indomabile come un cavallo selvaggio. Forse per questo piacque tanto a Charles Bukowsky che lo rese noto a livello mondiale dopo un lungo periodo di oblio.
Link: John Fante, A sad flower in the sand. Documentario in inglese su Chiedi alla polvere.
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