In queste crociere extra lusso di massa c’è qualcosa di insopportabilmente triste. Come la maggior parte delle cose insopportabilmente tristi, sembra che abbia cause inafferrabili e complicate ed effetti semplicissimi. A bordo della Nadir soprattutto la notte quando il divertimento organizzato, le rassicurazioni, il rumore dell’allegria cessavano io mi sentivo disperato. Ormai è una parola abusata e banale disperato, ma è una parola seria e la sto usando seriamente. Per me indica una semplice combinazione di uno strano desiderio di morte mescolato a un disarmante sentimento di piccolezza e futilità…
(David Foster Wallace, Una piccola cosa divertente che non farò mai più)
L’ho sempre sospettato, seppure in modo vago e sfumato: certe forme di divertimento organizzato a fini commerciali come crociere, casinò, binghi, villaggi turistici, acqua fun, discoteche, etc. hanno qualcosa di nauseante.
Nel senso che procurano a chi vi partecipa un sentore esattamente contrario a quello che vorrebbero trasmettere: non la sensazione di chi trascorre qualche ora o giorno della sua vita dimentico dei suoi problemi, ma la sensazione che quei problemi siano compressi artificiosamente nei recessi della coscienza da dove premono dolorosamente per emergere in superficie. E sappiamo bene quanto le negatività compresse a lungo andare possono trasformarsi in nevrosi sempre più solide e stratificate, difficili da eliminare.
Dunque a cosa serve l’industria del divertimento ? A procurare una sorta di boccata d’ossigeno che serva a prolungare ancora un po’ la capacità di resistenza psicologica di chi non ne può più di se stesso.
Forse David Foster Wallace quando ha scritto “Una piccola cosa divertente che non farò mai più” ossia il resoconto analitico di una sua crociera ai Caraibi su incarico della prestigiosa rivista Harper’s nel 1993 già non ne poteva più di se stesso.
La crociera secondo DFW – ma per estensione potremmo dire altrettanto di tante altre forme di divertimento organizzato – nella mente di molti crocieristi dovrebbe essere una forma di autoterapia. La nave da crociera è una specie di lazzaretto, di nave ospedaliera destinata e dare un po’ di conforto a gente che in qualche modo deve recuperare le energie dopo una malattia del corpo o più spesso dell’anima.
I crocieristi tipici per DFW sono in realtà un esercito di depressi, convalescenti, malati a vari stadi di intensità, disagiati per le cause più diverse i quali si illudono di poter trovare sollievo dalle loro sofferenza obbligandosi al divertimento forzato in una girandola di iniziative ludiche caratteristico delle crociere.
Sofferenza dei crocieristi che non è mai evidente e ancor meno chiaramente manifesta, ma sempre soggiacente, quasi invisibile e per questo più pericolosamente subdola. Sofferenza tuttavia avvertibile per chi – come DFW – sa leggere i segni del disagio da alcuni particolari che i più non riescono a cogliere.
DFW legge la realtà non attraverso , se non raramente, l’analisi psicologica diretta delle persone che attirano la sua attenzione, ma tramite un attento esame di realtà che dal visibile risale all’invisibile: quel modo di gesticolare o di ridere di quel vecchio che finge di essere di buon umore al tavolo di un ristorante rivela l’intenzione di mascherare la propria noia disperata; il modo in cui quell’uomo indossa i calzini o in cui quella donna osserva il panorama dal ponte della nave indicano qualcosa di infinitamente malinconico. Perfino il personale di bordo col suo freddo e inappuntabile efficientismo a una attenta osservazione rivela una frenesia malsana e artificiosa alimentata dal terrore di essere licenziati.
Tutto diventa simbolico nelle descrizioni di DFW.
I segni stessi del corpo rinviano – come un significante rispetto al significato – ai segni dell’anima, cioè il corpo diventa il correlativo oggettivo o lo schermo su cui sono proiettati i disagi dell’anima. Ciò che si vede, sembra suggerire DFW, è solo la punta dell’iceberg mentre il vero disagio resta occulto sotto la superficie apparente delle cose visibili.
Ho osservato e catalogato con ribrezzo ogni tipo di eritemi, cheratinosi, lesioni pre melanoma, macchie da mal di fegato eczemi, verruche, cisti populari, pancioni, celluliti femorali, vene varicose, trattamenti al collagene e al silicone, tinture orribili, trapianti di capelli mal riusciti, insomma ho visto un sacco di gente seminuda che avrei preferito non vedere seminuda. Mi sono sentito depresso come non mi sentivo dalla pubertà e ho riempito tre taccuini per capire se era un problema mio o un problema loro.
Tutto è finto, drogato e amplificato per narcotizzare i crocieristi da se stessi. Senonché in questo meccanismo del divertimento qualcosa non funziona, qualcosa tende a incepparsi.
I forzati del divertimento infatti in qualche remoto angolo della loro coscienza hanno la percezione della nuda e cruda verità: sanno cioè che il divertimento organizzato in realtà è un enorme teatrino che vorrebbe terapizzarli con risultati modesti. E’ come quando soffrendo di una malattia cronica dopo aver provato tutte le terapie messe a disposizione dalla scienza medica si cerchi di curarla ricorrendo a rimedi alternativi come la medicina tradizionale cinese, la pranoterapia o l’agopuntura: uno si rivolge a queste forme alternative quasi sempre per disperazione dopo aver registrato i fallimenti delle terapie scientificamente più acccreditate.
Idem la crociera per DFW: un estremo, tardivo e disperato tentativo di autoterapia alternativa che consiste semplicemente non nell’affrontare la malattia alla radice per estirparne la causa, ma una specie di placebo che annebbi la percezione stessa della malattia. Non la malattia è curata, ma la sua percezione, in modo che a una lucida, trasparente e salutare riconoscimento del proprio disagio come base indispensabile di ogni percorso di guarigione, si sostituisce una opaca sensazione di malinconica rassegnazione che finisce con l’assomigliare a una specie di serenità malaticcia per tutta la durata del periodo crocieristico.
Al termine del quale tutto torna esattamente come prima: anche l’ultimo estremo tentativo di rendere meno acuta l’insopportabilità di sé stessi fallisce.
… il conseguente reinserimento nelle richieste adulte del mondo reale senza sbocco al mare, non è stato così brutto, come mi aveva fatto temere una settimana di assolutamente niente.
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