Julius Evola dall’azione politica al ripiegamento interiore.
Da “Orientamenti” a “Gli uomini e le rovine” fino a “Cavalcare la tigre” e altro ancora il pensiero di Julius Evola (1898-1974) ha l’aspetto di una risacca ideologica, un progressivo ritirarsi dai campi di battaglia culturali del dibattito pubblico per rifugiarsi infine nell’ultima fortezza: quella di una forma di intimismo teso alla conservazione di se stessi, alla custodia della Tradizione cioè un sapere antico di cui le religioni contenevano ancora un ultimo vestigio prima che fossero secolarizzate in epoca moderna. La Tradizione per Evola non ha nulla a che vedere con il volgare neopaganesimo come taluno crede o l’agitazione di un leggendario valhalla precristiano. I suoi valori antimoderni hanno una funzione controrivoluzionaria ma – e qui si coglie lo sgomento dell’ultimoi Evola – tali valori tradizionali sul piano collettivo e storico sono stati sconfitti. La modernità come una valanga tutto ha travolto: la famiglia ha cessato di essere “unità eroica” cioè una cellula di resistenza antimoderna per diventare una appendice dello stato collettivistico; le religioni hanno perso la loro aura sacrale per divenire puro buonsenso borghese. Soprattutto hanno sostituito la comunione col sacro con forme devozionali che anziché fondare la signoria di se stessi e la capacità di plasmare la propria mente hanno creato dipendenza da dogmi collettivi e formule mineralizzate che volendo rivolgersi a tutti non soddisfano nessuno; le arti hanno perso il loro tradizionale ruolo di canalizzazione fra l’uomo e Dio o il loro riflesso del divino cessando di essere simbolo – cioè frammento – della presenza del sacro; la politica da istituzione regale permeata di nobiltà è diventata amministrazione burocratica del territorio ideologicamente indifferenziata. Fra le rovine del mondo moderno solo resta in piedi l’aristocrazia dello spirito cioè pochi uomini privilegiato che per talento e censo sono emancipati dalle pastoie spiritualmente nocive dalle dimensioni collettive, in particcolare il lavoro e la famiglia moderna. L’aristocratico evoliano è un uomo solo, una unità eroicamente solitaria cui spettano due compiti: affermare la sovranità di se stessi e trasmettere i valori della tradizione ai pochi, pochissimi in grado di intenderli in una sorta di paternità spirituale.
I FIGLI DI NIETZSCHE.
La sovranità di se stessi significa autogoverno fuori dal rumore sociale collettivo veicolato da mass media e dalle religioni e dalle arti decadute. Sovranità dignifica per Evola azione morale autodiretta dove per morale si intende concedersi tutte quelle esperienze che non danneggino l’individuo: per Evola è lecito tutto ciò che egli può permettersi di fare senza risentirne negativamente: “Tutto cio’ che non ti distrugge, ti rinforza” direbbe Nietzsche. Ciò che conta è che ogni atto dell’aristocratico spirituale sia sovrano, non condizionato o non manipolato in una parola non inquinato dalle tossine della modernità. E poi la paternità spirituale da esercitare in funzione pedagogica. Tutto in solitudine: come un sacerdote l’uomo “d’alto sentire” evoliano non deve avere legami perch’ i legami, a cominciare da quelli effettivi, costringono a delle scelte di convenienza.
Friedrich Nietzsche ha avuto molti figli, ma certo tre fra i maggiori sono i filosofi della Tradizione: Renè Guenon, Ernst Junger e Julius Evola. Ma Evola a differenza dei due “compagni di strada” risente meno di suggestioni metafisiche. Mentre per Guenon la storia è guidata e diretta alla inevitabile restaurazione degli antichi valori (Il regno della quantità e i segni dei tempi, 1945) attraverso un rovesciamento apocalittico del degrado moderno che inaugurerà il ritorno a un mitico mondo iperboreo o atlantideo e per Junger gli antichi simboli del sacro sono destinati a riaffiorare in superficie come i residui di un antico affresco macchiato, ma non cancellato dalle intemperie per Evola – dicevamo – la predestinazione provvidenziale della resturazione della Tradizione coi suoi antichi valori di lealtà, coraggio, integrità, missionarietà in un’etica di tipo epico o spartano dipende meno dai cicli cosmici da sempre stabiliti che dalle scelte individuali. In lui la lotta come dimensione interiore si fa più drammatica, cupa, tesa. Un alone saturnino e umbratile percorre tutta la sua opera, una specie di ostinata determinazione che ne fa il più vicino al maestro Nietsche.
MISTERO EVOLA.
Questa dimensione guerriera – dicevamo spartana ed epica – inizia a farsi più problematica e riflessiva negli ultimi scritti: comincia una nuova fase in cui le certezze sembrano scontornarsi, le antiche convinzioni stingersi. È la fase finale a creare l’alone di un Evola “misterioso”. Un Evola che da un certo punto in poi sembra credere che la modernità ha vinto e lo capisce in una sorta di sgomento osservando come attorno a lui i soldati dell’esercito della Tradizione – i nobili antichi spartani – defezionano o cambiano bandiera. Si avverte negli ultimi scritti evoliani e specialmente in Cavalcare la tigre. Orientamenti esistenziali per un’epoca della dissoluzione (1961) la sua solitudine da esiliato a Sant’Elena. Fors’anche un suo cedimento, manifesto soprattutto nelle ultime interviste, dove pare smussare e levigate molto del suo antico radicalismo ideologico: anche lui avverte forse l’esigenza di uscire dall’isolamento. Ma resta il dubbio che forse indossi solo una nietzschiana maschera per sottrarsi alle occhiute attenzioni che ne vorrebbero fare un fenomeno folkloristico, quasi un patetico relitto del passato da osservare con curiosità, quasi fosse un novello Kaspar Hauser che suscita curiosità o magari compassione. Oppure ancora il suo e’ un camaleontico “passaggio al bosco” come afferma il suo ex compagno di strada Junger. Persegue forse la strategia di mimetizzarsi fra le pieghe della cultura moderna per apparire in qualche modo malleabile in attesa – forse- di tempi migliori. Ma non si può escludere ancora – come teorizzava un altro suo “fratello in Nietzsche” Renè Guenon – che sorga in lui la certezza di essere arrivati alla fine della storia. Non resta allora altro che attendere quell’inevitabile e da sempre stabilito “rovesciamento” finale scaturito dal precipitare della modernità nel suo opposto e quindi la restaurazione della Tradizione.
E infine ancora un dubbio: fu egli un satiro che osservò con occhio divertito e amaro sarcasmo il degrado del vivere contemporaneo con i suoi riti grotteschi oppure visse l’epoca che gli fu data di vivere drammaticamente come un uomo costretto ad abitare un’epoca che non gli appartiene in una sorta di pasoliniano esilio doloroso? Certo in quest’ultimo caso il suo fu il dramma di un uomo che attende con ansia una “redenzione” creduta imminente, ma che non arriva mai.
Resta leggendola la sensazione di in finale non scritto o di un finale “open” come certa narrativa in cui resta l’impressione di non avere afferrato fino in fondo il significato dell’opera.
Categorie:Filosofia per tipi curiosi
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