“Le Montagne della follia” sono probabilmente l’opera in cui H.P. Lovecraft esprime meglio la sua posizione circa il mondo contemporaneo e il suo pessimismo cosmico riguardo l’umanità e la possibilità che sia governata metafisicamente da realtà benevole.
Scritto come ideale prosecuzione dell’ Arthur Gordon Pym di Edgar Allan Poe a proposito de “Le Montagne della follia” di H.P. Lovecraft scritto nel 1936, dobbiamo innanzitutto fare un’osservazione preliminare: dal punto di vista dell’efficacia stilistica l’opera non si può considerare fra le migliori di Lovecraft: numerose sono le ripetizioni, alcuni periodi sono circonvoluti e di difficile interpretazione, il linguaggio stesso si perde spesso in anse stagnanti dove la storia non procede e segna il passo in eccessivi lungaggini. A controbilanciare questa ampollosità formale dobbiamo tuttavia registrare la genialità dell’idea che regge la trama: un gruppo di esploratori composto da geologi, ingegneri, sismologi e scienziati di varia estrazione a bordo di due navi adeguatamente attrezzate (la Arkham e la Miskatonic) partono da Kingsport nella Nuova Inghilterra e raggiungono l’Antartide, il più piccolo, ma anche in più sconosciuto – all’epoca – dei continenti. Quando Lovecraft scrisse “Le Montagne della follia” l’esplorazione del Polo Sud era in pieno svolgimento con le spedizioni Amundsen e Scott da poco concluse; dunque è molto probabile che lo scrittore abbia tratto spunto dalle cronache scientifiche dell’epoca per elaborare l’opera.

Opera bizzarra per molti versi, ma soprattutto perché, come segnalato, a una certa ampollosità formale corrisponde un crescendo del pathos emotivo estremamente coinvolgente per il lettore: ad una prima parte più descrittiva in funzione di prologo in cui Lovecraft prepara il lettore con annotazione tecnico – scientifiche, segue una seconda in cui osserviamo col fiato sospeso la descrizione del rinvenimento di misteriosi esseri tra i ghiacci e riportati incautamente in vita, la folle trasvolata del protagonista col compagno Dumforth oltre il passo montano posto a più di settemila metri, la visione aerea della immane e ciclopica città abbandonata da milioni di anni di cui restano ancora notevolissime vestigia e infine la pazzesca esplorazione nelle viscere della terra fino alla orripilante scoperta finale, quella che nemmeno Dumforth osa nominare al suo compagno di sventura.

Ma la conclusione è una sola e inequivocabile: l’Antartide oltre “Le Montagne della follia”, aggiunge Lovecraft così somiglianti a quella rappresentate da Nicolas Roerich (1847 – 1947) nei suoi dipinti, corrisponderebbe all’innominato altopiano di Leng cui si accenna nelle più oscure e antiche leggende popolari. Ma la riserva di orrori non si esaurisce qui: ancora più profondamente nel continente ghiacciato sorge una catena dalla vertiginosa altezza in confronto alla quale le stesse “Montagne della follia” impallidiscono. Esse fanno da barriera all’ancor più spaventoso Kadath ossia un luogo così orripilante che perfino il Necronomicon scritto dall’arabo pazzo Abdul Alahzred ne parla solo per vaghe allusioni. Così Lovecraft lega il continente ghiacciato ai luoghi mitici della sua geografia ultra umana che ricorre in altre opere. Tutto si tiene e si completa ne “Le Montagne della follia” a delineare un pantheon di divinità blasfeme e di territori inconcepibili dalla mente umana.
I GRANDI ANTICHI.
Di grande importanza per comprendere la psicologia lovecraftiana sono a mio avviso le figure dei Grandi Antichi giunti dalle profondità cosmiche in epoca primordiale in Antartide dove hanno fondato il primo nucleo della loro avanzatissima civiltà.
Lo scrittore di Providence sembra parlarne nella prima parte del racconto con un certo disgusto: la stesso conformazione fisica degli esseri appare ributtante, sgradevole oltre ogni limite mentre dalla loro città oltre i pinnacoli più alti dell’Himalaya delle Montagne della follia traspare un silenzio sepolcrale permeato da un atmosfera malvagia pressoché diabolica. La immane megalopoli dei Grandi Antichi che si estende a perdita d’occhio oltre la catena montuosa è immersa in un silenzio immoto che da milioni di anni nessun essere vivente intelligente ha turbato: le sue strade sommerse nel ghiaccio, i suoi vicoli, le sue torri svettanti dalle geometrie bizzarre, i suoi edifici ciclopici in gran parte crollati, i suoi manufatti dalle forme più incredibile unite alla vetustà e alla decrepitezza fanno della megalopoli sconosciuta una sorta di Città di Dite dantesca, ma a differenza di quest’ ultima totalmente abbandonata da milioni di anni e priva di vita.
Tuttavia fra tanto orrore Lovecraft lentamente introduce il lettore ad altre considerazioni: è vero che i Grandi Antichi, cioè gli esseri mostruosi che hanno edificato la megalopoli in epoche remotissime quando ancora le masse continentali formavano la Pangea, sono ripugnanti e malevoli. Ma solo a un primo sguardo superficiale: nel prosieguo della cronaca dell’esplorazione in quel regno di morte bianca emerge la vera personalità degli esseri giunti dalle stelle. La loro civiltà sottolinea Lovecraft – a giudicare dai bassorilievi e dalle opere d’arte che ancora costellano i muri interni degli edifici – aveva raggiunto un grado di raffinatezza artistica di pregevole fattura: nessun arte umana può competere con le creazioni artistiche dei Grandi Antichi che dimostrano così, nonostante le apparenze ributtanti del loro corpo, una disposizione d’animo in qualche modo nobile.
Non solo: mano a mano che nuove rivelazioni emergono dai bassorilievi chilometrici che narrano la loro storia, i Grandi Antichi, sembrano avere raggiunto uno sviluppo tecnologico di gran lunga superiore a quello umano. Affiora allora un nuovo sentimento da parte del protagonista narratore che tende a considerare i primi abitatori della terra come una razza superiore tanto dal punto di vista morale che scientifico. Di più: a loro confronto emerge la pochezza dell’umanità gretta e meschina nei confronti della quale del resto Lovecraft non ha mai nascosto – nel corso di tutta la sua opera – una buona dose di disprezzo.
UNA PARABOLA SULL’UMANITA’.
Il narratore alter ego di Lovecraft che in forma cronachistica narra l’allucinante esplorazione della megalopoli fra i ghiacci non solo fa trasparire la sua ammirazione per l’altissimo grado di civiltà raggiunto dai Grandi Antichi, ma ne compiange la fine determinata da due fattori: il progressivo avanzare dei ghiacci che in epoche preistoriche hanno trasformato il clima in origine tropicale dell’Antartide e l’apparizione sulla scena di altri esseri mostruosi in qualche modo sfuggiti al controllo dei Grandi Antichi che li avevano assoggettati. Questi esseri al servizio dei loro padroni a un certo punto si ribellano tanto da prevalere in una serie di misteriose guerre fino a soppiantare l’antica razza dominante moralmente e tecnologicamente molto più avanzata. La nuova progenie non ha nulla a che fare con imostruosa informe e idiota, brutalmente violente, incapace di concepire alcunché di bello o di buono.
Sarebbe fin troppo facile – e tuttavia noi lo facciamo ugualmente – non individuare in questa sostituzione dei rapporti di forza l’idea tipicamente lovecraftiana per cui l’attuale umanità foglia della modernità non regge minimamente il confronto con le antiche comunità umane pre moderne caratterizzate da lealtà, coraggio, bellezza morale. In altre parole così come i rozzi e informi Shoggoth hanno soppiantato gli evoluti e raffinati Grandi Antichi, allo stesso modo l’umanità post Prima Guerra Mondiale arrivista, chiassosa e volgare sta soppiantando le antiche nobili stirpi figlie della tradizione.
La nobiltà d’animo sarà – anzi sta già per essere – soppiantata dalla volgarità crescente di un umanità in rapido decadimento fino alla catastrofe finale. Numerosi sono i passi della seconda parte de “Le Montagne della follia” in cui forse inconsapevolmente H.P. Lovecraft lascia affiorare la sua ammirazione per le antiche nobili stirpi impersonate dai Grandi Antichi e il suo disprezzo per le nuove impersonate dai suoi contemporanei. In questo brano il narratore della cronaca esplorativa – vale a dire Lovecraft stesso – ricostruisce la reazione di alcuni Grandi Antichi nel momento in cui sono attaccati da un gruppo di esploratori umani e dalla loro muta di cani:
“Non erano nemmeno selvaggi perché in definitiva cosa avevano fatto? Immaginate il loro orribile risveglio in un’epoca sconosciuta, l’attacco che forse avevano subito da una muta di quadrupedi pelosi e che abbaiavano confusamente, la confusa difesa che erano stati costretti a opporre ai cani e alle scimmie bianche non meno frenetiche, pur se dotate di starni vestiti e macchinari. (…) Poveri Antichi! Scienziati fino all’ultimo cosa avevano fatto che noi non avremmo fatto al posto loro? Dio, che intelligenza e tenacia! “
Insomma ne “Le Montagne della follia” Lovecraft esprime la sua amara consapevolezza circa l’umanità che sarebbe stata creata “per scherzo o per errore” da qualche razza aliena (forse i Grandi Antichi stessi) e da cui non c’é da aspettarsi nulla di buono mentre il cammino stesso dell’evoluzione non sarebbe altro che un progressivo processo di decadimento da una mitica Età dell’oro fino alla prossima futura età del ferro come nel Libro biblico di Daniele in cui il profeta interpreta il sogno del Re Nabucodonosor.
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