L’UOMO IN MENO (Atto IV).


dramma epico – calcistico.

                                                      ATTO IV

Nella solitudine innevata e ovattata del periodo natalizio a Javier sembrava di soffocare. Aveva necessità di uscire il più possibile dal suo appartamento vicino al centro sportivo che giaceva, come un cadavere su una tavola anatomica, in una zona angosciosamente pianeggiante periferica e piantumata.

Si tratta di realtà residenziali separate dal caos urbano, ma che impongono come pagamento in contropartita del loro snobistico silenzioso isolamento un tedio mortale.

Appena poteva Javier Montecristo andava a Milano se non altro per cogliere qualche segnale di vita. In una di queste gite solitarie qualcosa di strano gli accadde. Uscito dalla metro Cordusio fu investito da una folata di freddo, un freddo asciutto, teso e profumato che sapeva di neve e di montagna. L’aria scura era festosamente lacerata da fonti luminose di tutti i tipi, da quelle di un istituto bancario, a quelle che reclamizzavano uno spettacolo teatrale, alle finestre illuminate nei piani nobili dei palazzo ottocenteschi ricchi di fregi e fronzoli, solidi come la borghesia finanziaria che li aveva edificati, apparentemente incrollabili come tribunali divini, ma anche pagani e vagamente demoniaci nel loro blasfemo orgoglio  di ergersi mostruosi come colossi nell’aria nera.

A livello stradale non si contavano i negozi in franchising da “Coffee Break” con la sua veranda esterna ben riscaldata e illuminata che voleva imitare un ambiente tropicale o i grandi bar di lusso con le vetrine sature di articoli di alta pasticceria dove torreggiavano immani panettoni da 40 euro dalle confezioni pesanti ed elaborate che avrebbero potuto troneggiare nel Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo a gratificare la vista dello zar. Frammezzo a questa pantagruelica abbondanza che voleva evocare vaghe reminiscenze di antica nobiltà si mischiavano altri spazi dedicati alla celebrazione di una minimale, elegante, levigata modernità: grandi open space dedicati all’abbigliamento, alla moda dozzinale travestita da articoli elitari fintamente riservata a pochi con le sue vetrine seducenti e gli interni disseminati in disordine creativo di supporti per jeans, completi di rappresentanza, pullover, felpe, cravatte e infine maglie di squadre di calcio tra cui quella  magenta-ciano della F.C. Ambrosiana con il nome

“Montecristo”

leggermente arcuato stampato sul retro. E qui Javier ebbe un primo sentore dell’incrinarsi del suo prestigio: le maglie col suo nome costituivano un mucchio discretamente alto di capi impilati e intonsi ovverossia non toccati da mani umane a garanzia del fatto che erano state provate e indossate da patiti del calcio orgogliosamente gasati nell’indossare l’indumento col nome del grande campione. In compenso le stesse maglie dell’Ambrosiana col nome di altri giocatori apparivano accatastate in disordine, più volte maneggiate e dunque ambite da sconosciuti amanti del pallone sempre pronti a santificare nuovi idoli tradendo i vecchi così come il popolo eletto tradì l’unico Dio per il vitello d’oro.

Montecristo rimase indispettito di fronte allo spettacolo delle maglie, le sue ben impilate in agghiacciante ordine mentre le altre – quelle di Baccanale e di Apuleios in particolare – erano in vitale ed effervescente disordine: quei mucchi così diversi fra loro indicavano chiaramente e simbolicamente la sua inane, statica, noiosa, seppure elegante immobilità sul campo di gioco a fronte del vivace e frizzante dinamismo degli altri due.

Uscì con la strana sensazione di sentirsi un uomo qualunque e si rese conto che nessuno lo aveva riconosciuto, né si era avvicinato per chiedergli non dico l’autografo – che è roba d’altri tempi! – ma nemmeno un selfie, stringergli la mano, dirgli una parola di incoraggiamento del tipo “Forza Ambrosiana” o qualcosa di simile. Di più e anche peggio: si accorse che un paio di uomini sui cinquant’anni suonati dalla faccia antipatica e ostile che ricordava degli ortaggi grossolani e paganeggianti in qualche modo pre-cristiani lo guardarono qualche istante con zero increspature emotive, bruti e innocenti come una zucca bitorzoluta o una zucchina oscenamente oblunga a imitazione di un fallo vegetale. Costoro dunque lo guardarono un istante con aria atona per poi distogliere lo sguardo puro e materiale con un’aria di vago compatimento e ilare commiserazione. Fu come se Montecristo per un attimo acquistasse il dono delle preveggenza e fosse in grado di leggere il loro pensiero: avevano formato nei meandri delle loro semplici e brutali teste  l’idea che Montecristo fosse ormai un ex giocatore, anzi una autentica jattura per la squadra di cui era simbolo l’impappinamento palla al piede davanti alla difesa che era costata la partita contro lo scaltro Benevento alla seconda di campionato.

Montecristo uscì turbato dal negozio nell’aere turbinoso e oscuro di via Dante.

Alla sua sinistra la lunga e opulenta via terminava al Castello dove sapeva erano poste a circolo attorno all’antica dimore signorile dei Visconti e degli Sforza le bancarelle che costituivano la fiere degli “o bej o bej”. Forse laggiù, pensava con un moto di leggera disperazione che gli agitava il pensiero, in una cornice più bancarellara e quindi più popolaresca, naif e per nulla fricchettona il semplice popolo ancora legato al campanile e meno sofisticato nei gusti compreso quello calcistico, lo avrebbe riconosciuto ancora per un campione in nome della sua storia gloriosa. Il buon semplice popolo che riempiva gli stadi e che aveva cominciato a seguire il calcio quando ancora si giocava solo ed esclusivamente di domenica e le partite si seguivano più alla radio che alla TV e ancora tradizionalmente legato a una destra conservativa certo preferiva gremire le bancarelle degli “o bej o bej” che non i sofisticati ambienti radical chic dei  grandi open space  destinati  a un pubblico più fine, più elegante, più sinistrato.

Mentre camminava forse un poco pavoneggiandosi lungo le bancarelle colme di libri nuovi e usati, prodotti gastronomici regionali, paccottiglia per la casa, indumenteria dozzinale a poco prezzo, ciarpame vintage costosissimo, tuttavia Montecristo notava con la coda dell’occhio e con un angolo della mente che anche lì nessuno se lo filava manco di striscio.

Si fermò a guardare presso una bancarella che vendeva miele in tutti i tipi di formati.

L’imbonitore era un ciarliero montanaro vestito come un taglialegna che si dava un gran daffare per magnificare le straordinarie virtù di non so quale unguento per la pelle a base di cera d’api  a una procace signora non bella, ma un poco sofisticata.

Il prezzo del miele all’acacia, il preferito da Javier che da buon atleta non usava zucchero sostituendolo appunto col miele, era di 16 euro al kilo. Dunque un vasetto da un kilo costava 16 euro. Troppo, anzi troppissimo considerando che il miglior miele commerciale nei supermarket veniva via a 10-12 euro al massimo. Appena il montanaro o pseudotale dai capelli arruffati e il camicione a quadri rossoneri con la sua aria trasandata da agricoltore reduce da una dura giornata di lavoro con aria soddisfatta ebbe liquidato la signora col suo unguento, non appena questo accadde, dicevamo, Javier tentò il colpo:

-Capo il vasetto di miele di acacia da kilo me lo fa a tredici euro?

Il tipo lo guardò con aria fra l’incredulo e l’incazzato.

– Ma secondo te lo vendo col 25% di sconto? Ma lo sai che solo il posto per la bancarella mi costa 1000 euro?

Montecristo aveva un vizio: ogni tanto quando era trattato con maleducazione partiva in quinta:

-E allora se ti sei fatto gabbare 1000 euro al giorno vuol dire che il tuo miele è caro per ripagarti il posto, non perché è migliore degli altri.

Il montanaro alzò la voce con la faccia violacea che sembrava congestionata mentre Javier si allontanava deciso volgendo le spalle alla bancarella.

-Vai, vai a fartelo regalare da qualcun altro il miele. Ma cosa ho scritto in fronte, sali e tabacchi?  

Montecristo tornò indietro sui suoi passi.

-Se hai pagato 1000 euro per il posto al sindaco ce l’hai scritto si Sali e tabacchi in fronte.- disse allungando il braccio destro in avanti con la mano a spatola a indicare l’uomo e la sua dabbenaggine.

-Ma io ti conosco.- il montanaro si illuminò d’improvviso. -Tu sei quel giocatore bollito che sta facendo schifo. Altro che Montecristo, dovresti farti chiamare Montepirla.

Montecristo era già pronto a farla fuori a mani libere, quando intervenne un tipo sui cinquant’anni grande e grosso con una testa enorme, lo sguardo cattivo, una gran panza e con due mani che sembravano due pale.

-Con tutti i soldi che hai viene qui a micragnare per pochi euro…?

-E si permette pure di criticare il sindaco… sarà pure fascista.- intervenne una attempata quarantenne vestita come un’adolescente da centro sociale con addosso un maglione peruviano e Doc Martens rosse ai piedi.

Montecristo intuì che c’era il rischio di fare una colossale, titanica, gigantesca figura di merda: già s’immaginava il titolo sull’edizione on line dei principali giornaloni sportivi e non:

MONTECRISTO, LITIGA CON UN COMMERCIANTE PER POCHI EURO

MONTECRISTO, NE VALEVA LA PENA ?

MONTECRISTO NON PAGA IL MIELE E INSULTA IL SINDACO.

Il tutto col suo immancabile codazzo di commenti da parte dei lettori che gli davano dello spilorcio, dell’avaro, del pezzente, del rissoso, del fascista, del classista, del razzista, del piantagrane, dell’uomo finito non meno di quanto lo fosse il giocatore, consigli livorosi di andare a tagliarsi i capelli invece di girare per le bancarelle a rompere i coglioni agli onesti lavoratori, di tornare a casa sua in Uruguay, di spiegazioni sul perché era finalmente chiaro il motivo per cui era finito, di rancorosi inviti ad andare a lavorare, di pressioni perché intervenisse la Lega Calcio o l’Ambrosiana con una squalifica per almeno tre giornate, etc, etc….

Troppo rischioso.

Con un rapido calcolo mentale più dettato dall’emotività che dalla fredda razionalità che la situazione avrebbe richiesto Montecristo aveva davanti tre opzioni: cercare di rimediare scusandosi col commerciante, prenderlo per il bavero di quel camiciotto di flanella spessa o battere in ritirata facendosi risucchiare dalla folla vorticosa che girava per la fiera sfiorandolo anche in quel momento come la corrente di un fiume in piena.

Decise per la terza soluzione e si fece risucchiare via da quella situazione melmosa come acqua gorgogliante nel buco di un lavandino finché del liquido non resta più alcuna traccia.

“Speriamo di essercela cavata” pensava mentre ancora continuava il suo tour per il mercatino natalizio con la mente in tumulto e irato contro se stesso per essere fuggito come un vile anziché affrontare la situazione da uomo. Se era vero come era vero che la dignità non ha prezzo avrebbe dovuto, così pensava, restare e replicare duramente allo zoticone e agli altri idioti che gli avevano dato dell’avido, del fascista e del micragnoso. Soprattutto gli dava fastidio non aver replicato al fatto di essere stato etichettato fascista sia perché forse lo era, sia perché se anche non lo fosse stato era senz’alto di destra conservatore e tradizionalista e quindi… e quindi cosa? La sua mente turbinava agitata come un maelstrom in un fiordo norvegese e tuttavia sentiva che da qualche parte del suo essere una specie di calma da vigliacco e da fallito lo acquietava come un onda dolciastra e schifosamente tiepida da punch al mandarino mal riuscito.

Per cercare di calmarsi decise di concentrare l’attenzione come insegnava a fare la tradizione meditativa buddhista anche se lui, questo sia ben chiaro, era un cattolico conservatore che si serviva della meditazione zen come supporto “tecnico” per cercare di domare quella sua mente multitasking che spesso era disturbata da interferenze di ogni tipo.

Notò come la gente che deambulava fra le bancarelle fosse molto diversa da quella incontrata nei negozi di Via Dante: laggiù aveva incontrato della gente dalla faccia semplice, vagamente dimessa di origine popolare mentre qui nel freddo umido della fiera fra gli odori penetranti di formaggi artigianali, di cibo etnico, di fritti di varia natura e perfino di letame visto che poco fuori il perimetro della fiera già all’interno del Parco Sempione erano esposte delle capre vedeva gente più sofisticata, più chic, più trendy.

Vedeva faccette ben rasate e piccole, ferme e immobili a ostentare una grande sicurezza nei propri mezzi e nelle proprie capacità coi capelli corti ben rasati oppure gente, specialmente donne mature, vestite con uno stile vagamente orientaleggiante addobbate da vistosi monili etnici a voler mostrare forse un atteggiamento eco-poverista un po’ straccione che tuttavia non poteva ingannare l’occhio esperto di Montecristo nell’individuare roba costosa e firmata dietro le apparenze di indumenti terzomondisti.

Vide una giovane coppia evidentemente agiata, lui con un cappotto di pregio, la faccia piena di certezze e lei fresca di parrucchiere anch’essa rivestita di un importante soprabito foderato che reggeva una sacca di carta quadrata e voluminosa in cui campeggiava la scritta “F.C. Ambrosiana” col logo della società ossia uno scudo privo di insegne o emblemi di qualsiasi tipo vale a dire completamente bianco sormontato dal fregio di un serpentello che si mordeva ala coda.

Quale società di marketing avesse potuto elaborare un simbolo tanto insignificante non era dato sapere, ma tuttavia una cosa era certo: in via Dante nei grandi magazzini dozzinali di recente apertura, in quelle vere e proprie cattedrali del commercio dall’aspetto cool deambulava la normalità espressionista e dialettale mentre qui fra bancarelle puzzolenti e dall’aspetto che voleva apparire popolare e a buon mercato si muoveva una folla di alto borghesi danarosi.

E pensare, rifletteva Javier, che fino a non molto tempo prima le cose andavano esattamente all’opposto con gli open space alla moda delle vie centrali più monumentali frequentati da ricchi e i mercatini, da sempre simbolo e immagine dell’allegro disordine popolare, da gente di umile condizione.

Il mondo era cambiato e lui non se n’era manco accorto.

Riprese il cammino a ritroso stavolta da Piazza Castello lungo via Dante fino alla fermata Cordusio.

I monumentali palazzi della via con la loro grandeur alla Vive la France quasi certamente, congetturava Montecristo, risalivano all’epoca napoleonica.

Gli immani edifici con la loro mole imponente gravavano con tutto il peso dei loro fronzoli, del loro lusso, della loro storia su Javier che a un certo punto non poté fare a meno di innalzare lo sguardo a rimirare le facciate elaborate coi loro balconi massicci e arzigogolati, i loro fregi ricchi di simbolismo, le loro colonne incrollabili. Avevano celebrato i fasti di un impero, ora celebravano solo l’opulenza e la ricchezza dei padroni che li avevano affittati o comprati per destinarli a ospitare negozi e attività commerciali in franchising. Quei palazzi ex nobiliari ora facenti parte dell’aristocrazia commerciale ai piani superiori erano completamente bui.

O meglio: le facciate erano illuminate dall’esterno da corpi illuminanti simili a lampade da gabinetto odontoiatrico  posizionati appena sotto il tetto e ricurvi per dirigere i fasci luminosi sul fronte quasi a scrutare eventuali carie architettoniche che ne deturpassero l’estetica. Ma dall’interno non proveniva alcuna fonte luminosa. Le finestre erano rigorosamente ed enigmaticamente buie e lo erano semplicemente perché in quei palazzi non ci abitava nessuno se non qualche guru della moda affetto da manie di grandezza. La presenza dei proprietari si manifestava tramite l’assenza di vita umana all’interno di quelle buie finestre, di quelle buie scale, di quei bui appartamenti con tutta probabilità adibiti a uffici o magazzini delle attività commerciali del pianterreno. La nuova razza padrona fatta di sauditi, cartelli russi, gruppi cinesi, organizzazioni non governative, aggregati inestricabili di affari, manie di grandezza, voglia di emergere, ma soprattutto Potere era invisibile eppure presentissima, così presente da provare un senso di angoscia ai piedi di quelle dimore che avevano qualcosa di biblico.

Ecco si: quei palazzi erano la rappresentazione più plastica che il Potere poteva dare di se stesso in una grande metropoli europea. Una top town come dicevano gli opinionisti e gli intellò gli uni nei loro completi grigi o “blu istituzionale”, gli altri nelle loro camicie a buon mercato con le maniche arrotolate, i capelli in disordine, le loro vane gesticolazioni.

Improvvisamente Montecristo si domandò perché cazzo aveva deciso di chiudere la carriera in Italia, a Milano, all’Ambrosiana anziché tornarsene in Uruguay a godersi il mare a Punta de l’Este o qualche altra località turistica. Vide in altri termini in che razza di posto aveva deciso di vivere con quegli assurdi inverni che duravano 4 o 5 mesi, quei colori cupi, quelle facce spente, quel clima umidiccio e piovoso, quegli orribile jingle radiofonici. E i mega televisori con schermo al plasma dove i patiti del calcio vedevano le partite della Premier League che era l’unica a prevedere match durante le festività natalizie.

Poi qualcosa di strano gli accadde: mentre davanti alla mente gli sfilavano tutte queste immagini coloratissime, chiassose e infinitamente noiose vide il display di una farmacia in cui appariva una croce verde che emergeva dal fondo, si ingrandiva fino a raggiungere le massime dimensioni. Poi si trasformava velocemente in un mulino di cui i bracci della croce formavano le pale che iniziavano a ruotare prima lentamente e poi sempre più vorticosamente. Dopo qualche istante di quel festoso mulinare l’immagine si frangeva come fosse andata in mille pezzi e si trasformava nuovamente nella fusoliera di un aeroplano con le pale del mulino che si mutavano in eliche. Qualche istante ancora e il velivolo coloratissimo spiccava il volo, si alzava in cielo e si allontanava divenendo sempre più piccolo fino a sparire. Infine riappariva la classica croce verde tipica delle farmacie. Montecristo si soffermò a guardare come incantato quelle metamorfosi dell’immagine per più volte finché con una specie di brivido freddo si riscosse.

Vide che la gente che gli passava accanto mormorava qualcosa forse imprecazioni perché era fermo in mezzo al marciapiede ostacolando il traffico pedonale.

Poi chissà perché si commosse pensando all’aeroplanino di led luminosi che si innalzava in volo e spariva.

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